Una questione di coraggio.
A Milano è in corso la Fashion Week (una delle ormai infinite e ridondanti “week” milanesi) ma, scorrendo sulle testate di moda online e sulle centinaia di profili Instagram e social che di moda si occupano o dicono di occuparsi, si ha la sensazione di qualcosa di stonato. Sarà il peso di due anni di una pandemia di cui ancora non si vede la fine, sarà la notizia odierna dell’invasione Russa in Ucraina, ma la sensazione, guardando le immagini di abiti e collezioni, è davvero quella di un sistema ormai fuori tempo massimo, disancorato dalla realtà, incapace di elaborare nel profondo le trasformazioni in atto da due anni a questa parte, tristemente chiuso su se stesso con il solito devoto atteggiamento autoreferenziale.
Per questo la mia domanda è: ma a qualcuno, in questo momento, importa davvero qualcosa dei trend delle maisons? Le aziende e gli stilisti stanno raccontando qualcosa di nuovo? A parte capire con qualche anno di ritardo che le vendite online sono il canale commerciale del futuro e la storia trita e ritrita (per altro spesso da verificare) del fashion sostenibile, che tipo di riflessione creativa è in corso su ciò che è accaduto e sta accadendo nel mondo? Che traccia c’è, negli abiti e nelle collezioni presentati, di questi due anni di trasformazioni epocali? La mia modestissima risposta è: nessuna.
La moda è un sistema culturalmente complesso che aggrega da sempre concetti come economia, artigianalità e industria, sociologia, antropologia. E’ un insieme di variabili interconnesse: se ne cambia una, cambiano tutte. Negli ultimi decenni, lo strapotere dei grandi gruppi finanziari ha ridotto la moda ad un sistema privo di contenuti che non siano quelli di business, portando di fatto ad una grande omologazione che ha cancellato ciò che della moda è sempre stato il segno distintivo: creatività, ricerca, innovazione. Lo si capisce facilmente perché la moda di oggi non rischia più, vuole andare sul sicuro. Infatti tutti fanno le stesse cose, solo con etichette diverse. Le collezioni le progettano prima i responsabili del marketing dell’azienda o del gruppo finanziario, i creativi devono poi tradurre le previsioni economiche in abiti.
Il prêt-à-porter italiano che ha fatto la storia del Made in Italy era una grande orchestra sinfonica dove si raccoglievano personalità uniche ed eccezionali, stilisti che avevano una idea riconoscibile della moda unita ad una grandissima professionalità (e cultura). Il prêt-à-porter italiano è stato il trionfo della sperimentazione, della creatività, del gioco, della ricerca, dell’innovazione. E la comunicazione era facile e spesso geniale perché aveva contenuti reali da raccontare: storie di persone, esperienze, visioni. Il problema della comunicazione intesa come narrazione della moda non è da poco, perché se è vero che non si può fermare il progresso della tecnologia e non si può snobisticamente fare a meno dei nuovi strumenti a disposizione, è altrettanto vero che affidarsi alla velocità di una immagine dimenticandosi dell’importanza di sapere esprimere un pensiero ed un’opinione anche con le parole (che non siano solo: fantastico! bellissimo! meraviglioso! sublime!) è assai pericoloso. La velocità della comunicazione attraverso le immagini è senz’altro molto efficace ma rischia di indebolire la nostra capacità analitica e farci pensare che vada bene tutto o, peggio, che tutto si equivalga. Ma non è così e noi dobbiamo recuperare la capacità di sapere spiegare perché.
La moda ha perso la sua anima o forse, come Faust, l’ha venduta al diavolo della finanza e del consenso immediato. Per queste ragioni (e lo si vede, di nuovo, in questi giorni) i vestiti e le collezioni proposte di fondo sono tutte tristemente uguali: nessuna novità degna di rilievo, niente che colpisca nel cuore o che susciti un pensiero critico. Ora, difficile pretendere oggi sfilate come quella di Alexander McQueen con cui presentò le Armadillo shoes (vedi https://www.youtube.com/watch?v=CVN4WUKIzjA&t=22s) o Gianni Versace con i suoi tessuti metallizzati (vedi https://www.youtube.com/watch?v=3MkFegoQZ6s) o la raffinatezza della ricerca del lavoro stilistico di Antonio Marras (vedi https://www.youtube.com/watch?v=ASU7GmRUHGM), però neanche questo senso di déjà vu così deprimente. Come al solito, molte aziende pubblicizzano scelte green post-covid come se fosse una scoperta epocale dell’altro ieri, quando invece sono decenni che se ne parla e, anche lì, sarebbe ora di alzare il velo sopra tanta ipocrisia. Perché la più pulita delle tecnologie non può sostituire la scelta di un consumo consapevole. E un consumo consapevole non è solo un consumo di prodotti eco-sostenibili, è prima di tutto un consumo di valori. Qualità, durata, bellezza. Il trend in assoluto più eco-sostenibile? Comprare meno, ma comprare meglio.
Si dirà: e quindi, l’effimero? Ma problema non é l’effimero. È come se qualcuno ci dicesse: devi rinunciare alla leggerezza. Una cosa impossibile, visto che la leggerezza è un ingrediente fondamentale della vita. Il problema, semmai, è diventato l’inutile.
La pandemia ha evidenziato un fatto incontestabile: possiamo vivere davvero con poco. O, almeno, con l’essenziale. Purché sia bello e di qualità (e anche una tuta può essere bella e di qualità, non solo un abito da cocktail). Costretti a restare in casa, con una socializzazione annullata, il lavoro in remoto, ci siamo resi conto di quante cose inutili abbiamo riempito le nostre case e i nostri armadi. Molti di noi hanno approfittato di questo tempo sospeso per rivedere la propria vita, le proprie scelte, i propri progetti. Molti di noi hanno fatto pulizia in senso letterale, eliminando dalle proprie case, dai propri armadi e dalla propria vita il superfluo. Abbiamo indossato per mesi tute, pigiami, jeans comodi, ciabatte o infradito. Ed è impensabile non immaginare che tutto questo non abbia portato ad un cambiamento nella nostre abitudini vestimentarie. Molti saranno stati giustamente felici di ritornare al tailleur o al tacco dodici, ma moltissimi avranno deciso di dare un taglio netto ad un sacco di orpelli e di vestirsi bene sì, ma con un look più informale. Ed autentico. Per non parlare, poi, della riscoperta del second hand (che, non ha caso, sta diventando un trend di grande rilievo economico): perché comprarmi l’ennesimo cappotto nuovo se posso rispolverare quello di tre anni fa e dargli un tocco di freschezza con un accessorio carino (magari fatto da me)?
Questo cambiamento psicologico e sociale, queste diverse attitudini del consumatore dovrebbero essere oggetto di riflessioni creative ed imprenditoriali non solo in termini economici ma anche come contenuti stilistici: linee, materiali, ricerca. E se è vero che è assai difficile e costoso per una azienda rivoluzionare il proprio prodotto, è altresì vero che ignorare del tutto questi cambiamenti è abbastanza avvilente dal punto di vista creativo e forse nemmeno economicamente corretto in una valutazione a lungo termine. Ci vuole molto coraggio ad abbandonare i percorsi noti e a rimettersi in gioco, ma ci sono momenti sia nella vita delle persone che in quella delle aziende, in cui questo passaggio diventa improcrastinabile: il cambiamento spinge in nuove direzioni, costringe a rischiare, a sperimentare. E mai come in questo momento, dopo tutto quello che si è passato e che ancora si sta passando, sarebbe ora di recuperare una capacità visionaria che, trattandolo non più e non solo come merce, restituisca all’abito il suo valore semantico, la sua ricchezza di storia e di contenuti, la sua portata innovativa, la sua anima.
Questo coraggio ancora non si vede.
(c) Maria Cristina Codecasa Conti