Quella Milano che
In questi giorni la Triennale di Milano, una delle istituzioni museali più importanti della città e nota a livello internazionale, ha pubblicato sul suo account Instagram un post in cui annunciava che, come gesto di solidarietà simbolico nei confronti della rivoluzione delle donne iraniane, era possibile lasciare al museo una propria ciocca di capelli. E così questa mattina, beata nella mia ingenuità, mi sono recata in viale Alemagna al civico 6 chiedendo se potevo lasciare una ciocca dei miei capelli: la risposta è stata che no, non era possibile, perchè ancora non si erano attrezzati. Se volevo, potevo lasciarla fuori. Fuori??? Ma fuori dove: sparsa sul prato, dentro il cestino dei rifiuti, elegantemente adagiata sui gradini di ingresso? Ma se non siete ancora attrezzati, perchè pubblicare un post?
La mia personale risposta è questa: perchè Milano è ormai la città della narrazione. I contenuti della narrazione non contano, non sono importanti, possono anche non esserci. Il contenuto è anzi un po’ fastidioso, pesante, noioso. L’importante è sapere raccontare bene le cose. E riuscire a stare al passo con le narrazioni ritenute vincenti. A cena con gli amici, sul lavoro, in palestra, quando sei al parco col cane è molto importante sapersi raccontare bene. Ed in questi racconti traspare sempre l’ansia di non sembrare degli sfigati, di fare delle cose super interessanti, di non essere gli ultimi della fila.
Il sistema della città esaspera questo meccanismo: finanza, design, moda, editoria, gli eventi, le week, i saloni, le fiere, la movida, creatività, business, impresa. A Milano è vietato essere dei loser.
La narrazione spesso sostituisce il curriculum, giustifica onerose parcelle, mette in un angolo la meritocrazia.
Le aziende pagano molto bene chi si occupa dello storytelling, così come in pubblicità si pagano giustamente molto bene i copywriter: la narrazione/comunicazione aziendale sostiene il prodotto, spesso uguale, troppo uguale a tanti altri, di qualità media, senza particolare appeal. La narrazione aziendale in tutte le sue forme (media, social, retail) è quello che noi in realtà paghiamo quando acquistiamo un paio di scarpe o una borsa. Gli uffici stampa vivono della e sulla narrazione cui però, vista la difficoltà di avere sempre contenuti nuovi, corrispondono identità aziendali sempre più appannate.
I social network hanno amplificato molto il meccansimo della narrazione e l’hanno resa molto semplice, perchè lavorano sulle immagini, sulla velocità, sull’immediatezza, sulla pancia. Non devi avere una laurea in lettere a Oxford o un master in economia aziendale alla Bocconi per scrivere un post di Facebook. Quindi non è necessario spaccarsi la testa davanti ad un foglio bianco, farsi venire delle idee, riflettere, ragionare su uno straccio di contenuto. E questa estrema semplificazione si estende a tutto il resto, inevitabilmente, diventando un modus vivendi. E’ il regno dell’inconsistenza.
A fuoria di raccontarsela, però, nascono i problemi (tra cui svariate forme di nevrosi e frustrazione) e bisogna stare attenti. E’ un attimo fare una brutta figura (vedi il caso della ciocca di capelli per le donne iraniane) e quindi tornare nelle retrovie. Perchè quando, per esempio nel lavoro, ad un certo punto tu devi per forza di cose andare oltre la narrazione, spesso un vuoto minaccioso si prospetta all’orizzonte. Ma il vuoto quello vero, quello che assomiglia alla voragine di un cratere vulcanico addormentato: di preparazione, di esperienza, di professionalità. Spesso anche di valori, ma lasciamo perdere.
Stanno accadendo nel mondo cose su cui storici, filosofi, economisti rifletteranno nei prossimi decenni. Stanno accadendo, molto velocemente, eventi storici epocali che, nel bene e nel male, hanno avuto ed avranno un effetto dirompente nel nostro stile di vita. Non è che adesso dobbiamo diventare tutti raffinati filosofi, ma neanche continuare a vivere nella gigantesca bolla della nostra rappresentazione, che prima o poi, di fronte a temi, contenuti e sfide importanti, rischia davvero di esplodere. Ed è ormai palesemente fuori tempo massimo.
(c) Maria Cristina Codecasa Conti