Lusso Filosofico
Lo scritto che segue è una mia “esercitazione accademica” svolta nell’ambito di un corso di Filosofia da me seguito quest’anno presso l’Università Statale di Milano (un piccolo lusso che mi sono concessa): si tratta del commento ad uno degli aforismi contenuti nel libro “Minima moralia. Meditazioni della vita offesa” scritto dal filosofo tedesco Theodor W. Adorno tra il 1944 e il 1949.
Mi sembra che, a distanza di quasi tre anni dall’esplosione della pandemia covid, ancora non sia chiaro o si faccia fatica a comprendere (o decisamente e deliberatamente venga rimosso) l’impatto che questa ha avuto sulle nostre abitudini, sul nostro stile di vita, sul nostro comportamento di individui e di consumatori. Parto da questa osservazione per parlare del lusso, in particolare del lusso nel settore della moda e dell’abbigliamento (perchè è quello che mi riguarda dal punto di vista professionale), poichè penso che questi cambiamenti stiano incidendo profondamente sulla percezione di ciò che è veramente lussuoso e sui conseguenti comportamenti individuali e commerciali che dovrebbero diventare oggetto di riflessioni imprenditoriali approfondite.
Il primo vero lusso riscoperto durante la pandemia è stato quello del silenzio. Il silenzio ha molto a che fare con l’idea del lusso, perchè questo è la dimensione del non ostentato, del non immediatamente riconoscibile, del basso profilo: è l’eleganza discreta e silenziosa, quasi puritana che si gioca su dettagli impalpabili (la grana del tessuto, la cucitura) e che ha la sua matrice, come ha ben spiegato Adolf Loos che di eleganza (architettonica e sartoriale) se ne intendeva, nella borghesia anglosassone ottocentesca. Va detto, senza temere fraintendimenti di natura classista, che oggi le classi sociali che sono state riferimento sociale, produttivo ed economico per il lusso (aristocrazia e borghesia) sono in via di estinzione, sostituite da nuove icone e classi sociali espressione di un nuovo capitalismo e di una diversa visione del mondo che ha visto cadere (ed abbattere) molti simboli e codici associati ad uno status borghese messo profondamente in discussione.
Questa caratteristica della silenziosa discrezione associata al lusso e all’eleganza aveva (e spero che da qualche parte abbia ancora) un corrispettivo nel lavoro sartoriale vero e proprio: una delle cose che ti insegnavano negli atelier di alta moda è che le etichette dovevano essere cucite nei punti più nascosti dell’abito perchè esibirle era considerato volgare. Oggi noi con le etichette ci vestiamo: questo è la grande differenza culturale ed imprenditoriale.
Il lusso è anche la dimensione della scelta consapevole ed esclusiva del ritiro da tutte quelle situazioni (anche costosissime) in cui impera la volgarità del “lusso chiassoso” (Adorno). Un viaggio lussuoso, a mio parere, è quello che scegli di fare da vero viaggiatore, lontano dalle mete commerciali, possibilmente in spazi non eccessivamente antropizzati. Lussuoso è il tempo che mi posso concedere per viaggiare con mezzi che mi fanno riscoprire la lentezza (il treno, il camminare). Un lusso è mangiare i frutti del proprio orto. Lussuosa è l’arte della rinuncia al superfluo. Ed è davvero un lussuo la possibilità di scegliere: un lavoro, una passione. Ma il lusso supremo rimane per me il tempo, della cui disponibilità non possiamo avere certezza e che per questo dovremmo coltivare sempre con consapevolezza.
Del “lusso chiassoso” sono pieni i social network: personaggi, la cui notorietà viene misurata quantitativamente dal numero di seguaci virtuali, inondano quotidianamente il web con immagini di viaggi super cafoni su aerei privati, acquisti da migliaia di euro nelle “boutique del lusso”, cene in ristoranti “stellati”, etc. E’ questo il lusso cafonal sapientemente e cinicamente raccontato da Paolo Sorrentino ne “La grande bellezza”.
La pandemia ha evidenziato un fatto incontestabile: possiamo vivere davvero con poco. O, almeno, con l’essenziale. Costretti a restare in casa per mesi, con una socializzazione annullata, il lavoro in remoto, ci siamo resi conto di quante cose inutili abbiamo riempito le nostre case e i nostri armadi. Molti di noi hanno fatto pulizia in senso letterale, eliminando dalle proprie case, dai propri armadi e dalla propria vita il superfluo. L’essenzialità, il poco, è un obiettivo difficile da conquistare, è quel “Less is more” predicato da Mies van Der Rohe, uno dei più geniali e raffinati architetti della modernità e diventato, ahimè, claim pubblicitario. Perchè l’essenziale implica la scarnificazione, un processo di progressiva (e spesso dolorosa) eliminazione di strati, orpelli, sovrastrutture, ridondanze. Un processo che vale per il design di oggetti, nella scrittura, in architettura, nell’imprenditoria, nel proprio stile di vita.
Ma l’industria della moda rema contro questa idea (lei sì davvero lussuosa) della essenzialità e del poco. L’industria della moda ha la necessità strutturale di alimentare il nostro consumismo costruendo e ricostruendo un sistema di pseudo valori effimeri tesi a nutrire senza sosta il nostro desiderio. Il desiderio perenne, la sensazione di non possedere mai abbastanza, è la condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo. Il sistema industriale e comunicativo lavora, in contemporanea, anche per demonizzare il concetto di noia: annoiarsi (di un vestito, di un oggetto, di un rapporto, di un impegno) è fondamentale per alimentare la tensione perenne verso novità che hanno in realtà una durata limitata, sono novità in scadenza, abitate da una idea di morte. Ma la noia, come ben sanno i pedagogisti, è una componente fondamentale per lo sviluppo delle capacità creative.
La moda è un sistema culturalmente complesso che aggrega da sempre concetti come economia, artigianalità e industria, sociologia, antropologia. E’ un insieme di variabili interconnesse: se ne cambia una, cambiano tutte. Negli ultimi decenni, lo strapotere dei grandi gruppi finanziari ha ridotto la moda ad un sistema privo di contenuti che non siano quelli di business, portando di fatto ad una grande omologazione che ha cancellato ciò che della moda è sempre stato il segno distintivo: creatività, ricerca, innovazione. La moda di oggi non rischia più, vuole andare sul sicuro. Infatti tutti fanno le stesse cose, solo con etichette diverse. Le collezioni le progettano prima i responsabili del marketing dell’azienda o del gruppo finanziario, i creativi devono poi tradurre le previsioni economiche in abiti. In questo sistema non può esistere il vero lusso. Perchè questo è strutturalmente legato ad una dimensione artigianale del fare, è legato al lavoro lento e sapiente dell’artigiano, all’intelligenza delle mani, alla conoscenza e al rispetto dei materiali, alla pazienza, alla perseveranza. Non può esserci lusso quando la produzione è costretta a tempi strettissimi per il riassortimento continuo dei negozi: la variabile tempo è fondamentale nel lusso e riguarda sia il tempo impiegato per la realizzazione del capo/oggetto sia la sua durata nel tempo, strettamente connessa al concetto di qualità. Ed è il tempo un altro lusso che abbiamo forzatamente riscoperto durante la pandemia: il tempo per noi, per i nostri affetti, per i nostri interessi. Il tempo è un valore. Un abito è lussuoso non solo perchè costa caro, ma perchè veicola con sé un sistema di valori (e non solo di simboli): qualità, durata, bellezza.
Valori dei quali oggi, a mio giudizio, abbiamo davvero un gran bisogno. Il prodotto davvero lussuoso è gioco forza elitario. Non perchè in pochi se lo possono permettere ma perchè oggi in pochi lo sanno riconoscere. Si confonde il lusso con la marca: il brand sostituisce l’eleganza, io mi vesto elegante se mi vesto “ firmato”. Ma il capo “ firmato” spesso e volentieri è un capo che non ha le caratteristiche del prodotto di lusso (qualità, durata, bellezza) e a volte assomiglia, ahimè, a ciò che trovo sul banco del mercato, solo ad un prezzo esorbitante giusti ficato non tanto dai costi di produzione (ormai delocalizzata in quelle aree del mondo dove il costo della manodopera è pari allo zero) ma da quelli relativi alla comunicazione, al retail e alla distribuzione.
Ma la società del politicamente corretto, lo strapotere del pensiero mainstream, demonizzano l’idea della elitarietà perchè fagocitano l’ideologia del conformismo della unicità, che altro non è se non il livellamento coercitivo delle differenze. Non è un caso che tutte le grandi aziende di moda (e del “lusso”) seguano e traducano commercialmente tutti i pensieri mainstream che sono di “moda”, anzi di tendenza (il mantra del business del terzo millennio): ed in questo inseguimento ossessivo della tendenza non c’è posto per il lusso, che invece resta nelle retrovie dell’atemporalità, ambisce ad una dimensione temporale sospesa (l’abito senza tempo della nonna che non togli dall’armadio perchè è ancora attuale), Il prêt-à-porter italiano che ha fatto la storia del Made in Italy era una grande orchestra sinfonica dove si raccoglievano personalità uniche ed eccezionali, stilisti che avevano una idea riconoscibile della moda unita ad una grandissima professionalità (e cultura). Il prêt-àporter italiano è stato il trionfo della sperimentazione, della creatività, del gioco, della ricerca, dell’innovazione. E’ stata forse davvero una “utopia del qualitativo” (Adorno) che ha lasciato un segno indelebile nella storia della moda internazionale.
Ma questa “utopia del qualitativo” è stata risucchiata da un sistema industriale e finanziario che, nonostante i proclami pubblicitari delle aziende, stride rispetto ai problemi cruciali inerenti uno sviluppo sostenibile: come lo spreco dei consumi e l’inquinamento ( ogni anno 93 miliardi di metri cubi di acqua sono usati per la prooduzione tessile, il 20% dell’inquinamento globale deriva da trattamenti di tintura e si producono 100 miliardi di capi, di cui il 35% diventa scarto), lo sfruttamento di manodopera a basso costo nelle parti più povere del Pianeta e condizioni di lavoro non sempre rispettose dei più elementari diritti dei lavoratori (nel 2013 in Bangladesh il crollo del Rana Plaza, una fatiscente industria tessile, provocò circa 1.130 morti e 2.500 feriti, la maggior parte donne e anche bambini: cinque le aziende che lavoravano nell’edificio e producevano abiti per alcuni famosi marchi, Primark, Mango e l’italiana Benetton tra i più conosciuti). Il fast fashion, poi, non è molto diverso dall’idea demagogica di cui le aziende dei grandi marchi si fanno paladine ossia quella di “lusso democratico” contemporaneo, ne è anzi l’altra faccia della medaglia: quella di una falsa idea di democratizzazione, perchè non può esserci una vera democrazia del consumo laddove i clienti/persone vivono più o meno inconsapevolmente una condizione di necessità (il must have di cui sono pieni i media), di impossibilità alla rinuncia del superfluo, della sua glorificazione e poi immediato abbandono perchè la noia bussa alle porte.
E se una volta la stagionalità (autunno/inverno, primavera/estate) delle collezioni di moda aveva una sua ragione strutturale (prima fra tutte il tempo tecnico richiesto dalle aziende tessili per produrre nuove collezioni di tessuti), oggi questa stagionalità è saltata perchè non è più in grado di sostenere la necessità che le aziende hanno di riempire in continuazione i negozi con “novità”: il consumatore non può più concedersi il lusso della durata, che in senso metaforico significa non potersi concedersi il lusso del tempo legato all’uso, al “godimento” del prodotto. La fretta è un altro mantra della contemporaneità. E, parallelamente, l’assenza totale del tempo concesso alla riflessione è uno degli elementi che caratterizzano i social network: guardare, sospendendo la capacità di giudizio (per altro non richiesta) una quantità pressocchè infinita di immagini ed informazioni. Quanto in profondità abbia drammaticamente inciso questo meccanismo lo si rileva dalla crescente difficoltà che le persone hanno nella concentrazione e nella capacità di rimanere realmente connessi, per esempio sul lavoro, con ciò che si sta facendo, per più di quindici minuti.
I social network hanno un ruolo attivo nella squalificazione del lusso perchè principali diffusori di una idea di “volgarità del lusso contemporaneo” (Adorno) e perchè essi sono lo strumento chiave attraverso il quale le aziende della moda intercettano i trend, li traducono in codici vestimentari e li reimmettono sui circuiti della comunicazione e del mercato con nuovi codici di riferimento per i consumatori. Per questa ragione se si parla di stile, mai come oggi non è più la moda a dettare le regole, semmai il contario: la moda intercetta e rielabora le tendenze che nascono sulla strada, tra la gente, e, soprattutto, sui social. E’ però una comunicazione appiattita, livellante, che fagocita un morboso desiderio di unicità fittizia (un altro mantra della contemporaneità), dietro il quale in realtà si nasconde una “tendenza livellatrice della società di massa” (Adorno). E’ una comunicazione che fagocita un consumo compulsivo, la nevrosi del riempimento (pancia, tempo, spazio). E dove c’è una massificazione, di prodotti e valori, non può esserci il lusso, perchè il lusso fa riferimento ad una unicità reale (di esperienza, di prodotto, di valori).
Il problema della comunicazione della moda non è da sottovalutare, perché se è vero che non si può fermare il progresso della tecnologia e non si può snobisticamente fare a meno dei nuovi strumenti a disposizione, è altrettanto vero che af fidarsi alla velocità di una immagine dimenticandosi dell’importanza di sapere esprimere un pensiero ed un’opinione anche con le parole è assai pericoloso. La velocità della comunicazione attraverso le immagini è senz’altro molto ef ficace ma rischia di indebolire la nostra capacità analitica e farci pensare che vada bene tutto o, peggio, che tutto si equivalga. Ma non è così e noi dobbiamo recuperare la capacità di sapere spiegare perché.
Conclusione: la moda ha perso la sua anima o forse, come Faust, l’ha venduta al diavolo della finanza e del consenso immediato, veloce, acritico. Ma gli accadimenti degli ultimi anni e mesi (una pandemia e una guerra brutale a noi così vicina, crisi energetiche ed ambientali, instabilità sociale e politica) evocano domande che devono andare oltre la contingenza. Siamo chiamati alla fatica di dare alle cose un significato più ampio. E questo riguarda anche il concetto di lusso. Dovrebbero essere, questi accadimenti, oggetto di riflessioni creative ed imprenditoriali non solo in termini economici ma anche in termini di contenuti, non solo stilistici. Lusso è una di quelle parole cui occorre restituire un senso: non più solo un aggettivo connotativo di una categoria merceologica, ma una parola che evochi contenuti materiali e simbolici riferiti a prodotti ed esperienze la cui esclusività è una conquista non solo economica ma culturale.
(c) Maria Cristina Codecasa Conti